Fotografare il bosco
Autore: Redazione
Oliviero Toscani, che ho avuto il grande privilegio di conoscere, ha sempre detto che il fotografo dev’essere testimone del suo tempo, un autore con una visione che ha qualcosa da dire sulla società. E deve sempre chiedersi se è all’altezza di questo ruolo.
È un insegnamento che non dimentico mai.
Quando ho scoperto il bosco di Rogoredo ho subito sentito l’esigenza di conoscere i suoi “abitanti” e usare la fotografia per raccontarli.
La macchina fotografica però, al bosco è assolutamente bandita.
Riuscire a stabilire un contatto e soprattutto propormi a queste persone per far loro una foto è un’impresa quasi impossibile.
Sul web scopro che uno psicologo insieme a un gruppo di volontari offre un presidio di aiuto ai tossicodipendenti, direttamente davanti alla stazione di Rogoredo, a pochi passi dal bosco. Si chiama Simone Feder, è il coordinatore dell’Area giovani e dipendenze della comunità Casa Del Giovane di Pavia e ha scritto un libro su una ragazza che ha aiutato ad uscire dalla sua dipendenza: “Alice e le regole del bosco”.
Capisco subito che è la persona giusta per entrare in contatto con quel mondo.
Gli scrivo, mi risponde, ma percepisco poca disponibilità e un po’ di diffidenza.
Passano circa due anni dal primo scambio di messaggi, nel frattempo finisco il mio progetto Sulla tua pelle, incentrato sulle cicatrici e su temi controversi come l’autolesionismo, la violenza subita, il cambio di sesso, la malattia.
Nel 2021 apro il mio piccolo studio fotografico, proponendo quello che nel 1957 faceva mio nonno proprio lì: ritratti fotografici stampati.
Scrivo nuovamente a Feder nel luglio 2023: vorrei portare al presidio dei suoi volontari un vero e proprio set per fare la stessa cosa che faccio nel mio studio. Credo che fotografare i volti delle persone che vengono al bosco, sia la scelta migliore per concentrarmi sul lato umano, mostrando finalmente i loro sguardi.
Lui mi risponde secco: vieni.
(…)
La prima volta vado senza macchina fotografica e con dieci libri da donare alla biblioteca del bosco. Una bella idea di Feder quella di offrire cultura insieme ai beni di prima necessità.
Parcheggio fuori dalla stazione di Rogoredo e mi incammino in via Sant’Arialdo. Quel tratto di strada l’avevo visto tante volte nei servizi in tv e io stesso l’avevo percorso in macchina. A piedi però è tutta un’altra cosa. Intanto a un certo punto spariscono i marciapiedi, le auto passano velocemente e si avverte un senso di pericolo reale. E poi ci sono loro: le famose anime perse. Qualcuno mi chiede una sigaretta, qualcuno mi guarda strano. Forse si percepisce che non sono uno di loro. Non provo timore, in qualche modo sento di essere nel posto giusto al momento giusto.
Quando arrivo al presidio la prima sensazione è di stupore, mi aspettavo qualcosa di più ridotto. Invece ci sono molte persone: i volontari indossano una pettorina arancione e sono posizionati dietro a due tavoli, a sinistra offrono cibo e bevande, a destra vestiti. Vedo una suora e un uomo alto coi capelli bianchi che scopro essere un prete. E poi ci sono persone che mangiano, bevono, chiacchierano.
Mi si presenta una situazione di apparente normalità, non c’è disagio, sofferenza, tensione. Mi piace subito.
Simone mi stringe la mano, ma è circondato da gente che ha bisogno della sua attenzione, mi presenta Sofia, una volontaria e se ne va. Passo la serata a parlare prevalentemente con lei, spiegandole quello che voglio fare e osservando il via vai. I ragazzi dopo aver fatto la sosta scavalcano la staccionata e scompaiono nel buio.
Quando più tardi ripropongo a Feder la mia idea dei ritratti, lui mi dice: «Fai quello che vuoi, basta che lo fai col cuore e non porti pesantezza.»
Promesso.
Mi sono guadagnato l’opportunità di realizzare qualcosa di importante, che a Rogoredo non ha fatto ancora nessuno.
Il primo mercoledì sono elettrizzato.
Sto per fare una cazzata?
E se mi rubano tutto? Se si incazzano? Non è un caso che nessun fotografo ha mai portato qui un set fotografico finora. Decido di non pensarci troppo. È quello che volevo fare no? Vada come vada.
Appena arrivo incontro i primi due volontari: Valerio e Riccardo. Entrambi hanno avuto un periodo di dipendenza e un percorso in comunità alle spalle, oggi prestano servizio come operatori alla Casa del Giovane, il posto che li ha liberati. Sono due colonne portanti del presidio, sempre presenti e disponibili.
Piano piano arrivano tutti e si comincia a preparare i tavoli. Simone mi dice dove posizionarmi: vicino alla strada, e così per la prima volta allestisco il mio set, con un fondale comprato apposta.
Perché usare un fondale? Non sarebbe più facile usare solo una luce e fotografarli nel luogo in cui ci troviamo?
Il fondale permette di decontestualizzare. Non c’è il bosco, la staccionata, il cancello, via Sant’Arialdo, non c’è la zona maledetta, ma solo la persona. Chiedo sempre ai miei soggetti di guardare in macchina perché voglio che quello sguardo si rivolga a tutti quelli che successivamente vedranno le foto. Perché nessuno li guarda negli occhi?
Quella sera faccio i primi ritratti. In qualche modo sono “accreditato”, mi vedono come parte del Team e quindi, seppure con titubanza accettano.
Qui è tutto accelerato. Io di solito sono abbastanza veloce durante i miei shooting, parliamo di massimo mezz’ora, tendo a non dilungarmi. Breve ma intenso, come un’eiaculazione precoce. L’esperienza aiuta ovviamente. A Rogoredo i tempi sono ridotti al massimo. Si parla di pochi minuti. Le persone non sono lì per essere fotografate come succede con chi viene in studio. Si tratta di una sorpresa. Ma soprattutto sono lì per mangiare, hanno fame e poi devono andare a comprare le sostanze. E ovviamente, una volta comprate, devono assumerle. Quindi hanno fretta di fare altro sostanzialmente, non sono disponibili a rimanere a lungo davanti all’obiettivo, bisogna essere veloci. Sto imparando un nuovo modo di fotografare, e sono sicuro che senza gli anni di esperienza spesso non riuscirei a portare a casa la foto.
Non saprei dire qual è il modo giusto di approcciarsi, non c’è una regola che vale per tutti. Io mi avvicino, li guardo negli occhi e sorrido. Non parlo molto, chiedo se vogliono venire a farsi fare una foto e indico il mio set. Non so se loro percepiscono quanto è importante per me la fotografia, quanto ci tenga a questo progetto. A chi me lo domanda, spiego la mia presenza lì: realizzare un libro fotografico che racconti Rogoredo in un modo diverso. Forse accettano perché si sentono valorizzati, capiti, vedono l’assenza di giudizio, l’interesse nel mio sguardo.
(Alessandro Didoni Fotografo)